Una nota in nero


Musica e noir secondo Alberto Minnella:

Tornai a casa tardi quella sera. L’inverno, a Parigi, era rigido e dalla mia bocca uscivano piccole nuvole di fumo. Bisognava stare attenti, perché il ghiaccio si riposava stanco agli angoli dei marciapiedi, con il rischio di metterci un piede sopra e di svegliarlo. Io avevo bevuto qualche cicchetto, ma ero sobrio.

Sistemai il bavero del cappotto e arrivai al portone. Digitai il codice, aprii lentamente e mi feci i miei sei piani di scale a piedi. La mia era una casetta molto piccola e schifosamente fredda. Così, quando mi sentivo un po’ solo, che anche i pensieri se n’erano andati a fare un giro a Saint-Germain, aprivo una bottiglia di Armagnac e accendevo una bella Camel senza filtro.

Sulla parete destra, di fianco al comodino, avevo un vecchio giradischi degli anni quaranta. Ero stato un musicista anch’io. Uno dei migliori contrabbassisti di Parigi. Potevi sentirmi suonare  ogni giovedì notte all’Autour de Midi…et Minuit, all’undicesimo di rue Lepic, poco dopo il Moulin Rouge.

Quella sera volevo essere malinconico, con l’animo nero e ricordarmi l’odore dell’acciaio delle corde.

Presi “Kind of Blue” di Miles Davis.

Ho sempre pensato che non eri mai tu a scegliere cosa ascoltare. Erano i dischi che venivano a bussarti allo stomaco. Quello era un disco meraviglioso.

Uno dei più belli di quegli anni. Bill Evans scrisse lo scheletro melodico dei brani. Miles ci aggiunse l’anima, triste.

Sorpassai indenne “So What” e “”, ma arrivato a “Blue in Green” dovetti sedermi. Accesi un’altra sigaretta e aggiunsi del ghiaccio al distillato di vino.

Tornai indietro nel tempo. La gente s’era seduta sulle poltrone di pelle verde, e io e Allaiume accordammo gli strumenti. Hubert era in ritardo. Arrivo qualche minuto prima delle 22:00, si sedette alla batteria e iniziammo a suonare. “Blue in green” dicevamo. Beh, la suonammo per ben quattro volte quella notte, e la gente sembrava non averne abbastanza. Gli ottoni, la delicatezza del piano e poi quella nota iniziale di tromba, che si ficcava dentro al petto e ti lasciava steso su piatto di disperazione e sofferenza. Quando la suonavano, nessuno riusciva più a guardarsi negli occhi. Cinque minuti e trentotto secondi di guerra emotiva.

Pensai al groove di basso di Paul Chambers, alle spazzolate di James e Jimmy Cobb. C’era persino John Coltrain. Chissà quante sigarette fumate in quello studio alla trentesima strada di New York, ai Columbia Studios.

“All blues” e “Flamenco Sketches” chiudevano il cerchio. Il disco era finito, il mio bicchiere era vuoto e i volti dei miei compagni di una vita si erano spenti in fade-out con l’ultima nota di Miles Davis. Parigi era rimasta lì, come sempre. Io, invece, m’ero perso in una notte fredda e sciolto con il ghiaccio dei marciapiedi con il primo sole del mattino successivo.

Contributo di Alberto Minnella

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